di DANIELA BETTONI
Due amiche si incontrano a Brescia, si conoscono da meno di un anno, ma è
come se si conoscessero da sempre, e parlano di tutto.
(Conversazione in studio fra Sara Ferrari e Daniela Bettoni. Brescia, 15 dicembre 2011)
Arrivo all’appuntamento un giovedì mattina, fuori fa abbastanza freddo.
Lo studio è una ex officina di un tranquillo quartiere a nord ovest di
Brescia. Non c'è campanello, solo una gigante porta scorrevole in vetro e
ferro battuto in perfetto stile industriale. All'interno l'ambiente è
caldo e accogliente, la stufa è accesa e i Beirut creano un piacevole
sottofondo musicale. Ad attendermi sul tavolo caffè americano e
brioches. Dopo un breve giro panoramico siedo su una delle seggioline da
scuola recuperate non so dove da Sara e penso che le condizioni per una
buona intervista ci siano tutte!
D.B. E' un po’ di tempo che io e te progettavamo questa
intervista..innanzitutto vorrei parlare della maggior parte degli
oggetti che hai progettato finora, tutte serie limitate, come il
calendario da frigo, il bracciale XCIX_Y, la Dining Agenda, tutti
accomunati dal fattore tempo, quasi fosse un bisogno..
S.F. Non sei la prima che mi fa notare questo comune denominatore fra i
miei progetti. Ti dirò che io non ci avevo mai fatto caso. Sono molto
affascinata dal tempo e dalla sua immaterialità, e probabilmente, in
modo indiretto, questo mio interesse si esprime in quello che faccio.
Del resto il tempo siamo noi, ci accompagna sempre, com'era? C'è più
tempo che vita?
D.B. Ora invece a cosa stai lavorando?
S.F. Uno specchio e un orologio da parete (visto che si parla di tempo),
una sedia e poi un divano per un' azienda brianzola; in più mi occupo
della direzione artistica per un’azienda di tappeti, bresciana ma con
produzione in India.
D.B. Dopo una fase di "auto-produzione" ti stai dedicando al design di prodotto e al confronto con l'azienda!
S.F. Ci sto provando! L’ autoproduzione è stata il mio buongiorno al
mondo del design e adesso bisogna passare all’invito a pranzo. E’ stato
l’inizio di un percorso che mi è servito da racconto alle aziende, per
mostrare loro il mio modo di lavorare. E’ molto difficile condividere il
proprio approccio progettuale senza avere nulla in produzione…
D.B. Cosa ti ha lasciato Londra nei quattro anni di esperienza che hai
passato là? E cosa ti offre invece l’Italia, visto che hai deciso di
tornare?
S.F. Londra è stata soprattutto un'esperienza di vita, che
inevitabilmente si ripercuote anche nel modo in cui progetto. Vivere
all'estero mi ha insegnato a vedere le cose in modo diverso, in
generale. Lavorativamente parlando ho imparato a dare molta importanza
alla creazione di un concetto che non per forza sia finalizzato alla
produzione industriale.
E’ più un cercare di capire cosa sarebbe bello progettare e in che modo,
e il punto di partenza è sempre molto profondo e libero rispetto a
quello che mi hanno insegnato a scuola qui in Italia, perché non è
condizionato dai vincoli che un’azienda ti può dare. Questo può portare
alla realizzazione di un pezzo unico per una galleria d'arte o essere
auto-prodotto in serie limitata, per esempio.
Nei paesi dove l’industria fondamentalmente non esiste, c’è molta più
libertà progettuale, e la progettazione è più legata alla
sperimentazione ed è accompagnata da un' analisi che parte da molto
lontano: dal comportamento umano. Basta guardare i progetti della Design
Academy di Eindhoven per rendersene conto. Lì ti insegnano ad osservare
l’essere umano di per sé, come animale, per poi arrivare ai suoi
bisogni e al come si relaziona con gli oggetti che usa e che gli
servono. E’ un design pensato e con un senso, ma che spesso, arrivato ad
un certo punto, si ferma e non va oltre. Sia in Olanda che in
Inghilterra succede troppe volte che le idee si fermino ad un punto e
non vadano oltre. Credo più per un motivo pratico che per altro, per
l’assenza di manifattura, probabilmente. Sarebbe bellissimo che questo
modo di pensare potesse essere industrializzato, invece.
Io vorrei riuscire a unire l’approccio “più libero” imparato all’estero,
al modo di progettare italiano che è molto, forse troppo, legato
all’industria, e che a volte porta alla realizzazione di progetti poco
interessanti e un po’ troppo “industriali” o di puro esercizio estetico,
fine a se stesso.
Penso che la ricerca debba assolutamente esistere nel lavoro del
designer ma debba far parte di un processo più completo, finalizzato ad
arrivare ad un prodotto, altrimenti si parla d’arte, o altro, secondo
me.
D.B.
Ho scoperto alla Fiera Ambiente a Francoforte la grande capacità
d’impresa delle aziende italiane, molte delle quali bresciane, se
pensiamo a Bialetti, Flos, Zani&Zani, secondo te ce ne rendiamo
conto?
S.F. Se non osservi “da fuori” no, non te ne rendi conto! E’ assurdo! Io
ho riconosciuto la professionalità delle aziende italiane soprattutto
vivendo all’estero.
Ma è un po’ come tutte le cose in cui si è immersi, quando vivi nella
tua città natale, ad esempio, dai tutto per scontato e non riesci ad
osservare quello che ti circonda con la dedita distanza.
Stare all’estero per 4 anni mi è servito a rivalutare tante cose e ad
accorgermi di altre; mi ha aiutato ad acquisire una capacità di
osservazione molto diversa da quella che avevo prima, in tutto, non solo
nel mondo del lavoro.
Nonostante io sia tornata in Italia, cerco sempre di vedermi più che a
Brescia, in un luogo che sia la mia base, un punto di riferimento, con
una visione però sempre verso l’esterno.
Ho scelto Brescia per ragioni lavorative e ovviamente per la mia
famiglia, però mi impegno sempre a vivere la città con la dedita
distanza, perché è questa distanza che ti permette di vedere le cose nel
modo giusto.
Sto sempre molto attenta a non farmi travolgere dall’abitudine, è
essenziale tenere la giusta distanza da ogni cosa. E così succede con le
aziende. Vivendo qui, per me era normale che ce ne fossero tante ma
allo stesso tempo non mi rendevo conto di quello che avevo a
disposizione come designer.
D.B. Se non sbaglio “La giusta distanza” è anche il titolo di uno dei libri che vorresti scrivere.
Qual' era il secondo?
S.F. “Gente assopita”.
D.B. E di cosa parlano?
S.F. Con “La giusta distanza” intendo proprio il rendersi conto delle
cose, la consapevolezza, il saper leggere e osservare nel modo giusto
senza dare nulla per scontato. E’ come la prima volta che vai in un
luogo e ti accorgi che è completamente diverso da quando ci vivi da
tanti anni, perché ad un certo punto si smette di guardare e si vede
soltanto, no? invece quando arrivi per la prima volta osservi con più
attenzione, perché è tutto nuovo e non l’hai mai visto.
D.B. C’è gente che già quando arriva non lo fa, non pensare che tutti facciano questa analisi.
S.F. non è facile, soprattutto con la propria città. Temo l’abitudine,
in generale nella vita, sia l’abitudine visiva che quella fatta di
esperienze. Non sopporto l’idea di vivere in modo passivo senza
accorgersi di quello che si ha attorno, no?! Qualsiasi tipo di realtà ti
limita quando ne sei troppo coinvolto. E si rischia di perdere molte
occasioni. "Gente assopita" è un pò il risultato della non
consapevolezza.
D.B. Una cosa bella del tuo metodo è che non è confinato dentro orari di
lavoro. Hai la mente talmente abituata a cogliere e mettere insieme le
cose, a osservare e immagazzinare, che ti viene naturale. Raccontami il
tuo metodo progettuale, come procedi?
S.F. Non ha senso guardare i libri di design per prendere ispirazione.
Quando a Londra avevo gli attimi di "blocco progettuale" mi dicevo:
“Basta, prendo e vado a farmi un giro, a fare qualsiasi cosa e
dimenticando di essere alla ricerca d' ispirazione.” E poi alla fine la
trovi, magari da qualcosa che non c’entra niente e che però ti fa venire
in mente qualcos’altro e da lì poi nasce tutto, no?!
Se ho un metodo progettuale? Quasi, non è ancora ben definito, ma sto
cercando di svilupparlo pian piano. La prima fase consiste nella
definizione di un concept, la parte più divertente ma anche la più
difficile. Poi c’è la fase in cui si deve “tridimensionalizzare” l’idea,
che io descrivo come la traduzione letterale del concept in disegno, un
disegno che però è molto lontano da quello che sarà poi l’oggetto
finale.
Da lì, poi, inizia la fase di definizione dell’estetica dell’oggetto, una fase dove, secondo me, c’è chi si ferma troppo presto.
D.B. Disegni a mano o lavori al computer?
S.F. All’inizio disegno, sì, è inevitabile, insisto sempre molto anche
con Giulia, la ragazza che mi da una mano qui in studio, che
inizialmente si rifiutava di schizzare, non era abituata.
D.B. Quindi tu hai sempre mantenuto un legame con la penna?!
S.F. Per forza! Disegnando ti accorgi subito di cosa funziona e cosa no.
Noi facciamo tantissimi schizzi che rappresentano diversi modi di dare
forma all’idea iniziale, dopodiché li riguardiamo e facciamo degli
asterischi su quelli che riteniamo siano degni di ulteriore sviluppo.
E’ un modo che mi sono imposta per darmi dei paletti, e guidarmi verso una direzione piuttosto che un’altra.
A volte mi obbligo anche ad avere delle scadenze, proprio con i clienti
(altrimenti è facile imbrogliare); quando sono sotto pressione produco
un sacco di idee, mi concentro di più. Sarà l’ adrenalina! E’ bello e mi
serve sempre.
D.B. E come avviene la presentazione all’azienda?
S.F. Dipende dall’azienda. Con il cliente con cui sto sviluppando il
divano, ad esempio, il realizzare un rendering particolarmente
realistico non è stato necessario.
L’idea era chiara e abbiamo lavorato insieme direttamente sui prototipi.
D.B. Cos’è un rendering?
S.F. Un rendering è il disegno 3D di un’idea, solitamente ambientata in
un contesto. Io sono un po’ anti-rendering troppo realistici, primo
perché è difficilissimo farli, secondo perché la realtà alla fine è
sempre diversa. Poi dipende cosa stai “renderizzando” e per chi. E’ il
mezzo che permette di avvicinarti il più possibile alla realtà, ma non è
indispensabile.
C’è chi progetta lavorando esclusivamente all'estetica, lì il rendering è
indispensabile; io invece lo uso come mezzo per far capire le mie idee,
ma esistono anche altri modi.
Per il divano ad esempio, come ti accennavo prima, non volendo mostrare all'azienda
un' immagine troppo definita del prodotto, ho lavorato a disegni in 3D
per spiegare l'idea di base del progetto. Il rendering vero e proprio
non è mai servito, abbiamo lavorato direttamente sui prototipi,
definendo insieme dettagli come i materiali, i colori e tutte le varie
finiture. E' un'azienda che basa la propria filosofia sull'utilizzo di
materiali naturali al 100%, quindi la scelta dei tessuti, ad esempio,
era fondamentale che avvenisse toccandoli con mano.
D.B. Si può anche saltare la fase del rendering?
S.F. Si, dipende appunto sia dal tipo di rapporto che si ha con l’azienda, che da quello a cui si sta lavorando.
Se devo disegnare un tappeto, per esempio, non ha senso fare un
rendering, dato che fondamentalmente si tratta di una grafica, ha più
senso lavorare in 2D. Magari non so, per una sedia, avrebbe più senso
avere una visualizzazione tridimensionale, forse, ma non è detto.
D.B. Secondo te la gente sa chi è e cosa fa un designer?
S.F. Io faccio fatica a spiegare cosa faccio. Già non so dirlo in
italiano, se dico che faccio la Product Designer, la gente mi guarda
storto, o perché non sa cosa vuol dire o perché suona un po’ troppo
altezzoso. Allora spesso dico: "guardatevi intorno, ogni oggetto che vi
circonda è stato disegnato da qualcuno...io faccio quello, disegno
cose".
D.B. Noi diciamo “disegno industriale”, ma la parola “design” non ha una
esatta traduzione in italiano. Il termine ha sempre bisogno di un
suffisso: “design di prodotto”, “design industriale”, “design di
nicchia”, oppure si parla spesso di ”oggetto di design”..
S.F. Sì, è perché in realtà non significa altro che disegno, quindi di per sé non vuol dire molto.
All’estero è ancora più specifico: c'è il Furniture Designer che
progetta i mobili, il Lighting Designer che progetta le lampade, il
Product Designer che progetta prettamente oggettistica, e poi il Graphic
Designer, l' Interaction Designer, il Fashion Designer e così via.
In Italia il termine design ha un significato un po’ contorto purtroppo.
Anzi, secondo me il suffisso “di design” ha acquisito troppi significati diversi, creando molta confusione.
E’ come se “di design” significasse “di nicchia”, fastidioso, non credi?
Invece all’estero questo termine non esiste, perché “to design”
significa semplicemente disegnare, come sarebbe il nostro progettare, e
vale sia che si stia disegnando un cacciavite sia che si stia disegnando
una sedia o una lampada o qualsiasi altra cosa.
D.B. Oggi il panorama è più articolato e tocca varie forme di
comunicazione, dal food al web, dal graphic al fashion, dal textile al
gioiello. I designer creano più processi che prodotti e non sempre
rispondono a richieste industriali precise.
S.F. In realtà è anche una fortuna, visto che di solo prodotto è
difficile vivere. Quindi, come l’architetto può disegnare una casa o uno
spremiagrumi, anzi, dal cucchiaio alla città, anche il designer può
rivestire più ruoli.
E' proprio la progettualità che va a spalmarsi su diversi campi.
Il linguaggio utilizzato dev’essere coerente in ogni fase e aspetto di
un prodotto, quindi un designer DEVE essere in grado di rivestire più
ruoli.
Bisogna saper capire come un oggetto va presentato, come curarne
l’immagine pubblicitaria, il packaging, le fotografie dei cataloghi, il
sito internet. Una buona fetta del progetto è fatta di immagine e
comunicazione. Anche il contesto è importantissimo. Se metti l’oggetto
in un supermercato o in una galleria d’arte, l'importanza e il
significato che quell'oggetto acquisisce è ovviamente molto diversa.
D.B. Di recente sei stata anche a Berlino, presso la fiera del Qubique,
ad un convengo il cui tema era: “Does the world need another chair?”
Che risposta avresti dato tu?
S.F. E’ difficile! Si è parlato molto di come, stranamente, l’icona di
sedia fosse quella da un dollaro, la classica sedia da giardino, bianca,
di plastica, che trovi sia in Pakistan fuori dai bar più improbabili
che in un giardino del New Jersey, o a qualsiasi latitudine e in
qualsiasi paese. E ci si chiedeva perché l’ immaginario comune di sedia
fosse così brutto e costasse così poco. Voglio pensare che sia possibile
disegnare una sedia progettata con senso e con una buona estetica,
vendibile ad un prezzo accessibile. E’ possibile che una sedia di
Costant Gcic possa diventare la nuova icona? Al momento non credo,
perché costa ancora troppo.
Può darsi che quella da un dollaro sia diventata un’icona perché costa
poco, e fa il suo dovere, e quindi hanno preso tutti quella?
Questo però non significa che sia una buona sedia.
D.B. La ricerca ha un costo e si paga, forse dovremmo spostare lo sguardo alle sedie con un valore in termini di progetto.
S.F. Quella della ricerca è un po’ una scusa perché spesso il designer
fa ricerca da sé, anche se per altri, quindi non so quante aziende
stiano ancora investendo in ricerca. Spesso è a carico del designer. Se
si parla però dello sviluppo di nuovi processi produttivi o l'utilizzo
di materiali nuovi, allora sì, la presenza dell'azienda è essenziale.
D.B. E qua arriva la domanda, cosa ti sta sulle palle?
S.F. Quello che ti dicevo prima, che il design sia diventato di nicchia,
e che il termine “di design” in Italia significa più caro e non per
forza ben pensato e che funzioni bene. Se mia mamma volesse comprare un
divano nuovo, non penserebbe a B&B Italia, Cassina o Zanotta, ma a
realtà come Divani & Divani o Poltrone e Sofà, perché?
D.B.
Parlando invece di “Food design”, è uscito recentemente il libro
“Cavolo che design”, progetto editoriale in cui sono raccolte ricette di
verdure pensate dai designer, fra cui anche la tua ricetta Insalata
Magenta. Cosa pensi del rapporto fra cibo e design?
S.F. Mi viene in mente la pasta e la sua industrializzazione, prima
c’era la pasta fresca che tu compravi dal fornaio o al pastificio. La
conchiglia, la pasta industriale ideata dalla Barilla, ha vinto il
compasso d’oro agli ignoti. E' bello cercare di capire cosa succede al
sugo quando incontra la pasta. E in questo caso la conchiglia ha proprio
senso, no? E’ stata pensata per raccogliere il sugo, geniale, no?
Ogni tipo di pasta è pensato per essere cucinato con determinati
ingredienti, c’è la pasta dove il sugo deve scivolare e quella invece
dove il sugo deve essere trattenuto.
Le “ricette dei designer" invece sono un'altra cosa. Può venirti in mente
una ricetta che hai sperimentato o che spesso ti piace fare, ma non è mai una tua ricetta.
Perché il designer non è un cuoco, quindi lasciamo fare ai cuochi i cuochi e ai designer i designer.
Il bello di questo libro è che si riesce a vedere come i designer
abbiano un approccio speciale e diverso, con ogni cosa e quindi anche
con il cibo. Il designer tiene conto della presentazione, del modo di
relazionarsi al cibo, e anche del suo aspetto.
D.B. Raccontami la tua ricetta, perché hai scelto la barbabietola?
S.F. Quando mi hanno chiesto di proporre una mia ricetta, ho pensato che
sarebbe stato bello poterci accompagnare un' esperienza.
E' per questo che ho scelto la barbabietola. La trovo una verdura particolarmente divertente, e poi ha un colore fantastico.
Quando a Londra mi trovavo a cena con gli amici e ci mettevamo ad
affettare le barbabietole, si finiva sempre per giocare ai finti
assassini!
D.B. Succedono cose strane..
S.F. Ha un colore così intenso che sembra sangue, e finito di tagliarla hai le dita rossissime.
E poi ci sono sempre i racconti divertenti di chi, al mattino, dopo una
serata a base di barbabietola, fa la pipì rosso magenta e si preoccupa
di avere qualcosa di grave.
Secondo me durante una cena fra amici non bisogna solo pensare a cosa
mangiare, ma anche a quello che viene prima e quello che viene dopo.
D.B. E la ricetta?
S.F. La ricetta è nel libro, eh eh.
D.B. Sai cosa ho notato sfogliando questo libro? mi hanno colpito molto
le forme degli ortaggi scelti, l’asparago, la zucca, il cavolo con le
punte...
S.F. Una volta il mio amico Paul mi ha detto una cosa, che ho archiviato preziosamente fra le mie perle di saggezza:
“Nature is pretty good with colours”...e ha ragione! Pensa alle
sfumature verdi del cavolo, ai colori dei fiori, non c'è mai un
abbinamento sbagliato.
D.B. Noto solo ora il vaso fatto con vasetti di yogurt recuperati. Come si chiama?
S.F. Si chiama YCs e sta per Yogurt Cups
D.B. Sei un po’ ossessionata da numeri, lettere e acronimi!
S.F. Sì, in realtà poi scopro sempre che sono un po’ un casino da
pronunciare. Mi piacerebbe diventasse il mio modo di dare il nome alle
cose, e sarebbe bello se in futuro fosse una caratteristica
riconoscibile.
E’ un modo semplice ed efficace, ma che nasconde sempre un significato.
D.B. Come per il set di bracciali XCIX_Y (ninty-nine years) o il nome
dello specchio, so che non si può dire, ma me lo puoi almeno raccontare
un po’ ?
S.F. Si chiama AYL e sta per “As You Like”. Ti posso dire che non ho
voluto toccare la superficie specchiante, magica di per sé, e ho
ragionato invece sul modo in cui solitamente ci rapportiamo con questo
oggetto, un oggetto che alla fine guardiamo solo e non tocchiamo mai.
D.B. Descrivit in tre parole?
S.F. Umile ma decisa, a volte forse troppo buona.
Seria ma sciocca al punto giusto, credo che nella vita ci voglia sempre
un po’ di stupidità per alleggerire tutto, è come un cercare di rimanere
sempre un po’ bambini, ma senza dimenticarsi di essere cresciuti :-)
Sara Ferrari
Classe 1981, dopo gli studi al Machina Lonati Fashion and Design
Institute di Brescia, si trasferisce a Londra dove fonda nel 2009 Sara
Ferrari Design. Il suo lavoro è presto riconosciuto in ambito
internazionale: la sedia in cartone “PAD” riceve una menzione speciale
al concorso "Playing Design" dedicato al mondo dell'infanzia e viene
esposta al Museo d'Arte Contemporanea di Lissone, al Fuori Salone di
Milano e alla Mostra Internazionale dell'Arredamento di Monza, la
“Dining Agenda” viene selezionata dal Designboom Mart durante la fiera
ICFF di NY, mentre il bracciale “XCIX_Y” é giunto alla Peel Gallery in
Texas. Nel 2009 il progetto “Stone Leaf” riceve una menzione speciale
dalla giuria del concorso Zanotta - Cristalplant Design Contest mentre
"The fridge calendar" é presente in importanti gallerie di design a
Toronto, Boston, Melburne, Londra, Stoccolma, Milano e Brescia.
Da poco rientrata in Italia Sara collabora con diverse aziende allo
sviluppo di nuovi progetti, sia come designer che come direttore
artistico.
lastampa.it BLOG Culturanatura di Fortunato D'Amico
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