giovedì 9 febbraio 2012

Sara Ferrari. All Around Design

di DANIELA BETTONI

Due amiche si incontrano a Brescia, si conoscono da meno di un anno, ma è come se si conoscessero da sempre,  e parlano di tutto.
(Conversazione in studio fra Sara Ferrari e Daniela Bettoni. Brescia, 15 dicembre 2011)


Arrivo all’appuntamento un giovedì mattina, fuori fa abbastanza freddo. Lo studio è una ex officina di un tranquillo quartiere a nord ovest di Brescia. Non c'è campanello, solo una gigante porta scorrevole in vetro e ferro battuto in perfetto stile industriale.  All'interno l'ambiente è caldo e accogliente, la stufa è accesa e i Beirut creano un piacevole sottofondo musicale. Ad attendermi sul tavolo caffè americano e brioches. Dopo un breve giro panoramico siedo su una delle seggioline da scuola recuperate non so dove da Sara e penso che le condizioni per una buona intervista ci siano tutte!

D.B. E' un po’ di tempo che io e te progettavamo questa intervista..innanzitutto vorrei parlare della maggior parte degli oggetti che hai progettato finora, tutte serie limitate, come il calendario da frigo, il bracciale XCIX_Y, la Dining Agenda, tutti accomunati dal fattore tempo, quasi fosse un bisogno..

S.F. Non sei la prima che mi fa notare questo comune denominatore fra i miei progetti. Ti dirò che io non ci avevo mai fatto caso. Sono molto affascinata dal tempo e dalla sua immaterialità, e probabilmente, in modo indiretto, questo mio interesse si esprime in quello che faccio. Del resto il tempo siamo noi, ci accompagna sempre, com'era? C'è più tempo che vita?

D.B. Ora invece a cosa stai lavorando?

S.F. Uno specchio e un orologio da parete (visto che si parla di tempo), una sedia e poi un divano per un' azienda brianzola; in più mi occupo della direzione artistica per un’azienda di tappeti, bresciana ma con produzione in India.

D.B. Dopo una fase di "auto-produzione" ti stai dedicando al design di prodotto e al confronto con l'azienda!

S.F. Ci sto provando! L’ autoproduzione è stata il mio buongiorno al mondo del design e adesso bisogna passare all’invito a pranzo. E’ stato l’inizio di un percorso che mi è servito da racconto alle aziende, per mostrare loro il mio modo di lavorare. E’ molto difficile condividere il proprio approccio progettuale senza avere nulla in produzione…

D.B. Cosa ti ha lasciato Londra nei quattro anni di esperienza che hai passato là? E cosa ti offre invece l’Italia, visto che hai deciso di tornare?

S.F. Londra è stata soprattutto un'esperienza di vita, che inevitabilmente si ripercuote anche nel modo in cui progetto. Vivere all'estero mi ha insegnato a vedere le cose in modo diverso, in generale. Lavorativamente parlando ho imparato a dare molta importanza alla creazione di un concetto che non per forza sia finalizzato alla produzione industriale.
E’ più un cercare di capire cosa sarebbe bello progettare e in che modo, e il punto di partenza è sempre molto profondo e libero rispetto a quello che mi hanno insegnato a scuola qui in Italia, perché non è condizionato dai vincoli che un’azienda ti può dare. Questo può portare alla realizzazione di un pezzo unico per una galleria d'arte o essere auto-prodotto in serie limitata, per esempio.
Nei paesi dove l’industria fondamentalmente non esiste, c’è molta più libertà progettuale, e la progettazione è più legata alla sperimentazione ed è accompagnata da un' analisi che parte da molto lontano: dal comportamento umano. Basta guardare i progetti della Design Academy di Eindhoven per rendersene conto. Lì ti insegnano ad osservare l’essere umano di per sé, come animale, per poi arrivare ai suoi bisogni e al come si relaziona con gli oggetti che usa e che gli servono. E’ un design pensato e con un senso, ma che spesso, arrivato ad un certo punto, si ferma e non va oltre. Sia in Olanda che in Inghilterra succede troppe volte che le idee si fermino ad un punto e non vadano oltre. Credo più per un motivo pratico che per altro, per l’assenza di manifattura, probabilmente. Sarebbe bellissimo che questo modo di pensare potesse essere industrializzato, invece.
Io vorrei riuscire a unire l’approccio “più libero” imparato all’estero, al modo di progettare italiano che è molto, forse troppo, legato all’industria, e che a volte porta alla realizzazione di progetti poco interessanti e un po’ troppo “industriali” o di puro esercizio estetico, fine a se stesso.
Penso che la ricerca debba assolutamente esistere nel lavoro del designer ma debba far parte di un processo più completo, finalizzato ad arrivare ad un prodotto, altrimenti si parla d’arte, o altro, secondo me.

D.B. Ho scoperto alla Fiera Ambiente a Francoforte la grande capacità d’impresa delle aziende italiane, molte delle quali bresciane, se pensiamo a Bialetti, Flos, Zani&Zani, secondo te ce ne rendiamo conto?

S.F. Se non osservi “da fuori” no, non te ne rendi conto! E’ assurdo! Io ho riconosciuto la professionalità delle aziende italiane soprattutto vivendo all’estero.
Ma è un po’ come tutte le cose in cui si è immersi, quando vivi nella tua città natale, ad esempio, dai tutto per scontato e non riesci ad osservare quello che ti circonda con la dedita distanza.
Stare all’estero per 4 anni mi è servito a rivalutare tante cose e ad accorgermi di altre; mi ha aiutato ad acquisire una capacità di osservazione molto diversa da quella che avevo prima, in tutto, non solo nel mondo del lavoro.
Nonostante io sia tornata in Italia, cerco sempre di vedermi più che a Brescia, in un luogo che sia la mia base, un punto di riferimento, con una visione però sempre verso l’esterno.
Ho scelto Brescia per ragioni lavorative e ovviamente per la mia famiglia, però mi impegno sempre a vivere la città con la dedita distanza, perché è questa distanza che ti permette di vedere le cose nel modo giusto.
Sto sempre molto attenta a non farmi travolgere dall’abitudine, è essenziale tenere la giusta distanza da ogni cosa. E così succede con le aziende. Vivendo qui, per me era normale che ce ne fossero tante ma allo stesso tempo non mi rendevo conto di quello che avevo a disposizione come designer.

D.B. Se non sbaglio “La giusta distanza” è anche il titolo di uno dei libri che vorresti scrivere.
Qual' era il secondo?

S.F. “Gente assopita”.

D.B. E di cosa parlano?

S.F. Con “La giusta distanza” intendo proprio il rendersi conto delle cose, la consapevolezza, il saper leggere e osservare nel modo giusto senza dare nulla per scontato. E’ come la prima volta che vai in un luogo e ti accorgi che è completamente diverso da quando ci vivi da tanti anni, perché ad un certo punto si smette di guardare e si vede soltanto, no? invece quando arrivi per la prima volta osservi con più attenzione, perché è tutto nuovo e non l’hai mai visto.

D.B. C’è gente che già quando arriva non lo fa, non pensare che tutti facciano questa analisi.

S.F. non è facile, soprattutto con la propria città. Temo l’abitudine, in generale nella vita, sia l’abitudine visiva che quella fatta di esperienze. Non sopporto l’idea di vivere in modo passivo senza accorgersi di quello che si ha attorno, no?! Qualsiasi tipo di realtà ti limita quando ne sei troppo coinvolto. E si rischia di perdere molte occasioni. "Gente assopita" è un pò il risultato della non consapevolezza.

D.B. Una cosa bella del tuo metodo è che non è confinato dentro orari di lavoro. Hai la mente talmente abituata a cogliere e mettere insieme le cose, a osservare e immagazzinare, che ti viene naturale. Raccontami il tuo metodo progettuale, come procedi?

S.F.  Non ha senso guardare i libri di design per prendere ispirazione.
Quando a Londra avevo gli attimi di "blocco progettuale" mi dicevo: “Basta, prendo e vado a farmi un giro, a fare qualsiasi cosa e dimenticando di essere alla ricerca d' ispirazione.” E poi alla fine la trovi, magari da qualcosa che non c’entra niente e che però ti fa venire in mente qualcos’altro e da lì poi nasce tutto, no?!
Se ho un metodo progettuale? Quasi, non è ancora ben definito, ma sto cercando di svilupparlo pian piano. La prima fase consiste nella definizione di un concept, la parte più divertente ma anche la più difficile. Poi c’è la fase in cui si deve “tridimensionalizzare” l’idea, che io descrivo come la traduzione letterale del concept in disegno, un disegno che però è molto lontano da quello che sarà poi l’oggetto finale.
Da lì, poi, inizia la fase di definizione dell’estetica dell’oggetto, una fase dove, secondo me, c’è chi si ferma troppo presto.

D.B. Disegni a mano o lavori al computer?

S.F.  All’inizio disegno, sì, è inevitabile, insisto sempre molto anche con Giulia, la ragazza che mi da una mano qui in studio, che inizialmente si rifiutava di schizzare, non era abituata.

D.B. Quindi tu hai sempre mantenuto un legame con la penna?!

S.F.  Per forza! Disegnando ti accorgi subito di cosa funziona e cosa no.
Noi facciamo tantissimi schizzi che rappresentano diversi modi di dare forma all’idea iniziale, dopodiché li riguardiamo e facciamo degli asterischi su quelli che riteniamo siano degni di ulteriore sviluppo.
E’ un modo che mi sono imposta per darmi dei paletti, e guidarmi verso una direzione piuttosto che un’altra.
A volte mi obbligo anche ad avere delle scadenze, proprio con i clienti (altrimenti è facile imbrogliare); quando sono sotto pressione produco un sacco di idee, mi concentro di più. Sarà l’ adrenalina! E’ bello e mi serve sempre.

D.B. E come avviene la presentazione all’azienda?

S.F. Dipende dall’azienda. Con il cliente con cui sto sviluppando il divano, ad esempio, il realizzare un rendering particolarmente realistico non è stato necessario.
L’idea era chiara e abbiamo lavorato insieme direttamente sui prototipi.

D.B. Cos’è un rendering?

S.F. Un rendering è il disegno 3D di un’idea, solitamente ambientata in un contesto. Io sono un po’ anti-rendering troppo realistici, primo perché è difficilissimo farli, secondo perché la realtà alla fine è sempre diversa. Poi dipende cosa stai “renderizzando” e per chi. E’ il mezzo che permette di avvicinarti il più possibile alla realtà, ma non è indispensabile.
C’è chi progetta lavorando esclusivamente all'estetica, lì il rendering è indispensabile; io invece lo uso come mezzo per far capire le mie idee, ma esistono anche altri modi.
Per il divano ad esempio, come ti accennavo prima, non volendo mostrare all'azienda
un' immagine troppo definita del prodotto, ho lavorato a disegni in 3D per spiegare l'idea di base del progetto. Il rendering vero e proprio non è mai servito, abbiamo lavorato direttamente sui prototipi, definendo insieme dettagli come i materiali, i colori e tutte le varie finiture. E' un'azienda che basa la propria filosofia sull'utilizzo di materiali naturali al 100%, quindi la scelta dei tessuti, ad esempio, era fondamentale che avvenisse toccandoli con mano.

D.B. Si può anche saltare la fase del rendering?

S.F. Si, dipende appunto sia dal tipo di rapporto che si ha con l’azienda, che da quello a cui si sta lavorando.
Se devo disegnare un tappeto, per esempio, non ha senso fare un rendering, dato che fondamentalmente si tratta di una grafica, ha più senso lavorare in 2D. Magari non so, per una sedia, avrebbe più senso avere una visualizzazione tridimensionale, forse, ma non è detto.

D.B. Secondo te la gente sa chi è e cosa fa un designer?

S.F. Io faccio fatica a spiegare cosa faccio. Già non so dirlo in italiano, se dico che faccio la Product Designer, la gente mi guarda storto, o perché non sa cosa vuol dire o perché suona un po’ troppo altezzoso. Allora spesso dico: "guardatevi intorno, ogni oggetto che vi circonda è stato disegnato da qualcuno...io faccio quello, disegno cose".

D.B. Noi diciamo “disegno industriale”, ma la parola “design” non ha una esatta traduzione in italiano. Il termine ha sempre bisogno di un suffisso: “design di prodotto”, “design industriale”, “design di nicchia”, oppure si parla spesso di ”oggetto di design”..

S.F. Sì, è perché in realtà non significa altro che disegno, quindi di per sé non vuol dire molto.
All’estero è ancora più specifico: c'è il Furniture Designer che progetta i mobili, il Lighting Designer che progetta le lampade, il Product Designer che progetta prettamente oggettistica, e poi il Graphic Designer, l' Interaction Designer, il Fashion Designer e così via.
In Italia il termine design ha un significato un po’ contorto purtroppo.
Anzi, secondo me il suffisso “di design” ha acquisito troppi significati diversi, creando molta confusione.
E’ come se “di design” significasse “di nicchia”, fastidioso, non credi?
Invece all’estero questo termine non esiste, perché “to design” significa semplicemente disegnare, come sarebbe il nostro progettare, e vale sia che si stia disegnando un cacciavite sia che si stia disegnando una sedia o una lampada o qualsiasi altra cosa.

D.B. Oggi il panorama è più articolato e tocca varie forme di comunicazione, dal food al web, dal graphic al fashion, dal textile al gioiello. I designer creano più processi che prodotti e non sempre rispondono a richieste industriali precise.

S.F. In realtà è anche una fortuna, visto che di solo prodotto è difficile vivere. Quindi, come l’architetto può disegnare una casa o uno spremiagrumi, anzi, dal cucchiaio alla città, anche il designer può rivestire più ruoli.
E' proprio la progettualità che va a spalmarsi su diversi campi.
Il linguaggio utilizzato dev’essere coerente in ogni fase e aspetto di un prodotto, quindi un designer DEVE essere in grado di rivestire più ruoli.
Bisogna saper capire come un oggetto va presentato, come curarne l’immagine pubblicitaria, il packaging, le fotografie dei cataloghi, il sito internet. Una buona fetta del progetto è fatta di immagine e comunicazione. Anche il contesto è importantissimo. Se metti l’oggetto in un supermercato o in una galleria d’arte, l'importanza e il significato che quell'oggetto acquisisce è ovviamente molto diversa.

D.B. Di recente sei stata anche a Berlino, presso la fiera del Qubique, ad un convengo il cui tema era: “Does the world need another chair?”
Che risposta avresti dato tu?

S.F. E’ difficile! Si è parlato molto di come, stranamente, l’icona di sedia fosse quella da un dollaro, la classica sedia da giardino, bianca, di plastica, che trovi sia in Pakistan fuori dai bar più improbabili che in un giardino del New Jersey, o a qualsiasi latitudine e in qualsiasi paese. E ci si chiedeva perché l’ immaginario comune di sedia fosse così brutto e costasse così poco. Voglio pensare che sia possibile disegnare una sedia progettata con senso e con una buona estetica, vendibile ad un prezzo accessibile. E’ possibile che una sedia di Costant Gcic possa diventare la nuova icona? Al momento non credo, perché costa ancora troppo.
Può darsi che quella da un dollaro sia diventata un’icona perché costa poco, e fa il suo dovere, e quindi hanno preso tutti quella?
Questo però non significa che sia una buona sedia.

D.B. La ricerca ha un costo e si paga, forse dovremmo spostare lo sguardo alle sedie con un valore in termini di progetto.

S.F. Quella della ricerca è un po’ una scusa perché spesso il designer fa ricerca da sé, anche se per altri, quindi non so quante aziende stiano ancora investendo in ricerca. Spesso è a carico del designer. Se si parla però dello sviluppo di nuovi processi produttivi o l'utilizzo di materiali nuovi, allora sì, la presenza dell'azienda è essenziale.

D.B. E qua arriva la domanda, cosa ti sta sulle palle?

S.F. Quello che ti dicevo prima, che il design sia diventato di nicchia, e che il termine “di design” in Italia significa più caro e non per forza ben pensato e che funzioni bene. Se mia mamma volesse comprare un divano nuovo, non penserebbe a B&B Italia, Cassina o Zanotta, ma a realtà come Divani & Divani o Poltrone e Sofà, perché?

D.B. Parlando invece di “Food design”, è uscito recentemente il libro “Cavolo che design”, progetto editoriale in cui sono raccolte ricette di verdure pensate dai designer, fra cui anche la tua ricetta Insalata Magenta. Cosa pensi del rapporto fra cibo e design?

S.F. Mi viene in mente la pasta e la sua industrializzazione, prima c’era la pasta fresca che tu compravi dal fornaio o al pastificio. La conchiglia, la pasta industriale ideata dalla Barilla, ha vinto il compasso d’oro agli ignoti. E' bello cercare di capire cosa succede al sugo quando incontra la pasta. E in questo caso la conchiglia ha proprio senso, no? E’ stata pensata per raccogliere il sugo, geniale, no?
Ogni tipo di pasta è pensato per essere cucinato con determinati ingredienti, c’è la pasta  dove il sugo deve scivolare e quella invece dove il sugo deve essere trattenuto.
Le “ricette dei designer" invece sono un'altra cosa. Può venirti in mente
una ricetta che hai sperimentato o che spesso ti piace fare, ma non è mai una tua ricetta.
Perché il designer non è un cuoco, quindi lasciamo fare ai cuochi i cuochi e ai designer i designer.
Il bello di questo libro è che si riesce a vedere come i designer abbiano un approccio speciale e diverso, con ogni cosa e quindi anche con il cibo. Il designer tiene conto della presentazione, del modo di relazionarsi al cibo, e anche del suo aspetto.

D.B. Raccontami la tua ricetta, perché hai scelto la barbabietola?

S.F. Quando mi hanno chiesto di proporre una mia ricetta, ho pensato che sarebbe stato bello poterci accompagnare un' esperienza.
E' per questo che ho scelto la barbabietola. La trovo una verdura particolarmente divertente, e poi ha un colore fantastico.
Quando a Londra mi trovavo a cena con gli amici e ci mettevamo ad affettare le barbabietole, si finiva sempre per giocare ai finti assassini!

D.B. Succedono cose strane..

S.F. Ha un colore così intenso che sembra sangue, e finito di tagliarla hai le dita rossissime.
E poi ci sono sempre i racconti divertenti di chi, al mattino, dopo una serata a base di barbabietola, fa la pipì rosso magenta e si preoccupa di avere qualcosa di grave.
Secondo me durante una cena fra amici non bisogna solo pensare a cosa mangiare, ma anche a quello che viene prima e quello che viene dopo.

D.B. E la ricetta?

S.F. La ricetta è nel libro, eh eh.

D.B. Sai cosa ho notato sfogliando questo libro? mi hanno colpito molto le forme degli ortaggi scelti, l’asparago, la zucca, il cavolo con le punte...

S.F. Una volta il mio amico Paul mi ha detto una cosa, che ho archiviato preziosamente fra le mie perle di saggezza:
“Nature is pretty good with colours”...e ha ragione! Pensa alle sfumature verdi del cavolo, ai colori dei fiori, non c'è mai un abbinamento sbagliato.

D.B. Noto solo ora il vaso fatto con vasetti di yogurt recuperati. Come si chiama?

S.F. Si chiama YCs e sta per Yogurt Cups

D.B. Sei un po’ ossessionata da numeri, lettere e acronimi!

S.F. Sì, in realtà poi scopro sempre che sono un po’ un casino da pronunciare. Mi piacerebbe diventasse il mio modo di dare il nome alle cose, e sarebbe bello se in futuro fosse una caratteristica riconoscibile.
E’ un modo semplice ed efficace, ma che nasconde sempre un significato.

D.B. Come per il set di bracciali XCIX_Y (ninty-nine years) o il nome dello specchio, so che non si può dire, ma me lo puoi almeno raccontare un po’ ?

S.F. Si chiama AYL e sta per “As You Like”. Ti posso dire che non ho voluto toccare la superficie specchiante, magica di per sé, e ho ragionato invece sul modo in cui solitamente ci rapportiamo con questo oggetto, un oggetto che alla fine guardiamo solo e non tocchiamo mai.

D.B. Descrivit in tre parole?

S.F. Umile ma decisa, a volte forse troppo buona.
Seria ma sciocca al punto giusto, credo che nella vita ci voglia sempre un po’ di stupidità per alleggerire tutto, è come un cercare di rimanere sempre un po’ bambini, ma senza dimenticarsi di essere cresciuti :-)


 














Sara Ferrari
Classe 1981, dopo gli studi al Machina Lonati Fashion and Design Institute di Brescia, si trasferisce a Londra dove fonda nel 2009 Sara Ferrari Design. Il suo lavoro è presto riconosciuto in ambito internazionale: la sedia in cartone “PAD” riceve una menzione speciale al concorso "Playing Design" dedicato al mondo dell'infanzia e viene esposta al Museo d'Arte Contemporanea di Lissone, al Fuori Salone di Milano e alla Mostra Internazionale dell'Arredamento di Monza, la “Dining Agenda” viene selezionata dal Designboom Mart durante la fiera ICFF di NY, mentre il bracciale “XCIX_Y” é giunto alla Peel Gallery in Texas. Nel 2009 il progetto “Stone Leaf” riceve una menzione speciale dalla giuria del concorso Zanotta - Cristalplant Design Contest mentre  "The fridge calendar" é presente in importanti gallerie di design a Toronto, Boston, Melburne, Londra, Stoccolma, Milano e Brescia.
Da poco rientrata in Italia Sara collabora con diverse aziende allo sviluppo di nuovi progetti, sia come designer che come direttore artistico.




lastampa.it BLOG Culturanatura di Fortunato D'Amico
 

Nessun commento:

Posta un commento